Terrananda

La natura è maestra

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Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia

Il rapporto uomo natura è una relazione che l’uomo stabilisce con l’ambiente in cui è inserito. Non può esserci rispetto per l’ambiente se prima l’uomo non ha maturato un sufficiente rispetto per se stesso e per gli altri esseri viventi, in primo luogo esseri umani.

Per questo non può esserci un vero sviluppo ecologico là dove si agisce per egoismo, interesse, conformismo.

L’uomo ha bisogno di essere valorizzato nelle sue dimensioni di responsabilità, volontà e libertà affinché sviluppi il necessario rispetto verso se stesso e verso il mondo.

Necessario è promuovere il senso di responsabilità che noi esseri umani abbiamo nei confronti dell’ambiente. Infatti, nessun altro essere può interferire così tanto e così incisivamente sull’ambiente circostante. Noi possiamo fare molto, nell’aiutare la natura a sostenere il suo perfetto equilibrio o, al contrario, nel danneggiarla. Tuttavia non si può prescindere dall’umanità.

Sono le relazioni umane fondamentali a dover essere rivalorizzate, per poter essere in grado di porsi in relazione con l’altro, ambiente, persona o animale, nel modo più rispettoso e accogliente possibile.

I semi sanno aspettare

Hope Jahreb, Lab Girl, Knopf, Penguin Random House, 2016

Un seme sa aspettare.

La maggior parte dei semi attende un anno prima di iniziare a crescere; un seme di ciliegio può arrivare a aspettare anche fino a cento anni senza alcuna difficoltà. Ma cosa aspettano esattamente?

Ogni seme aspetta che accada qualcosa e solo lui sa che cosa.

Deve accadere una combinazione unica tra temperatura, umidità e luce insieme a altri fattori per convincere un seme a saltare fuori dalla terra e decidere di cambiare.

Deve avvenire qualcosa per cui questo seme approfitti di quella prima e unica opportunità di crescere.

Anche mentre resta nell’attesa, un seme continua a vivere.

Le ghiande cadute al suolo sono tanto vive quanto le querce di trecento anni che si stagliano sopra di loro.

Nessuno dei due, né la ghianda né la quercia centenaria stanno crescendo, ma entrambi stanno aspettando. Però non guardano verso la stessa direzione.

Il seme aspetta di germogliare mentre l’albero aspetta ormai di morire.

Se entri in un bosco, probabilmente osserverai meravigliato quegli alberi che hanno superato di gran lunga l’altezza dell’uomo verso il cielo, e probabilmente non abbasserai lo sguardo al suolo, ma proprio lì in basso, ai tuoi piedi, puoi incontrare centinaia di semi tutti vivi e in attesa.

Tutti ad aspettare un’occasione che forse non arriverà mai.

Più della metà moriranno prima di sentire che hanno raggiunto quella combinazione unica che stavano attendendo e in certe terribili annate potrebbe non sopravviverne neanche uno solo.

Quando entriamo in un bosco, per ogni albero che vediamo, ce ne sono per lo meno un centinaio che attendono sotto la terra, bramando di venire alla luce.

Una noce di cocco è un seme, solo che è tanto grande quanto la testa di un uomo.

Può galleggiare dalle coste dell’Africa e poi, attraverso l’Oceano Atlantico, mettere radici e crescere su un’isola dei Caraibi.

I semi di orchidea, al contrario, sono piccolissimi: un milione di quelli non pesa più di una molletta.

Sia come sia il loro peso, ciò che alla fine fanno tutti i semi è alimentare l’embrione che resta dentro, nell’attesa. Quando l’embrione contenuto in un seme comincia a crescere, in sostanza, quello che fa, consiste nell’allungarsi da quella che era la sua posizione iniziale fino a prendere la forma contenuta nel suo progetto interno.

Infatti, la parte dura che circonda le molecole in un seme di sesamo o in un guscio di noce è lì solo per evitare che cominci a espandersi. In laboratorio, raschiamo la copertura e la annaffiamo un po’. Questo basta a far crescere qualsiasi seme.

Nella mia attività di ricercatrice scientifica avrò avuto a che fare con migliaia di semi, eppure questo continuo sbocciare della vita, giorno dopo giorno, non ha mai smesso di stupirmi.

Tutto ciò che è difficile può essere realizzato come per magia se arriva qualche aiuto.

Trovarsi nel luogo giusto e poter contare con condizioni adeguate può portare, alla fine, a raggiungere ciò che eravamo destinati ad essere.

Una volta, un equipe scientifica, raschiò la protezione di un seme di loto, (Nelumbo nucifera) si trovò faccia a faccia con ciò che stava dentro, nell’embrione, e lo fecero crescere, poi osservarono la sua buccia vuota. Quando datarono con il radiocarbonio questo guscio esterno scartato, scoprirono che la loro piantina li stava aspettando da una torbiera in Cina da non meno di duemila anni.

Questo minuscolo seme aveva ostinatamente mantenuto la speranza del proprio futuro mentre intere civiltà umane salivano e scendevano. E poi, un giorno, il desiderio di questa piccola pianta è finalmente esploso in un laboratorio.

Chissà dove si trova, adesso, quel piccolo essere.

Ogni inizio è la fine di una attesa.

A ciascuno di noi è stata concessa un’opportunità unica di esistere.

Tutti siamo qualcosa di essenzialmente impossibile e inevitabile. Allo stesso modo, tutti gli alberi colmi di frutti sono stati, un tempo, semi che aspettavano il loro momento.

Il ruolo dell’uomo nel riscaldamento globale

No alle false informazioni sul clima. Il riscaldamento globale è di origine antropica

Inizia così la lettera aperta promossa da Roberto Buizza, fisico all’Istituto di Scienze della Vita della prestigiosa Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e coordinatore dell’iniziativa federata sulla climatologia con Scuola Normale Superiore e Scuola IUSS Pavia.

Chiediamo – si legge all’inizio della lettera aperta – che l’Italia segua l’esempio di molti paesi Europei e decida di agire sui processi produttivi e il trasporto, trasformando l’economia in modo da raggiungere il traguardo di ‘zero emissioni nette di gas serra’ entro il 2050.

Qui trovate la lettera completa e l’elenco dei firmatari

FlashMob: Ricordarsi e prendersi cura della Natura.

Per dare visibilità e risonanza alla nostra intenzione e all’urgenza di migliorare il rapporto umano con l’ambiente, in direzione di un maggior rispetto e cura, proponiamo un FlashMob alle ore 18.30 il prossimo Sabato 7 Settembre a Pontedera (PI) di fronte alla Chiesa del Crocifisso.


Chiediamo a chi parteciperà di portare:

  • un cartello da fissarsi sulle spalle con un messaggio semplice (positivo e non politico) sul rispetto per la natura
  • un seme o un piccolo albero da piantare e di cui prendersi cura una volta messo a dimora in terra.

Ci raccoglieremo in meditazione in cerchio per alcuni minuti intorno agli alberi ed i semi portati e poi ognuno provvederà a recarsi sul luogo dove intende seminare o piantare l’albero che ha portato con se.

Ti ringrazio se vorrai condividere questo post.

Come rispondere alle politiche consumistiche che stanno bruciando l’Amazzonia?

Come analizzato nel nostro recente post le politiche che stanno bruciando da venti anni la foresta amazzonica sono legate alla produzione di soia per allevamenti animali e di carne destinata in buona parte all’esportazione verso l’Occidente di cui facciamo parte.

Potremmo dilungarci su molte azioni che chiunque di noi può quotidianamente compiere per rispondere in modo individuale a questo continuo e progressivo abuso della natura, ma per ragioni di spazio ci concentreremo su tre possibili azioni concrete collegate al proprio stile alimentare:

Per chi è onnivoro: mangiare meno carne e mangiarla solo proveniente da allevamenti alimentati con prodotti coltivati nel nostro paese e in grado di garantire il massimo rispetto possibile per animali e ambiente.

Per chi è vegetariano o vegano: consumare soia certificata biologica e proveniente da paesi che rifiutano gli OGM e non dal Sudamerica e informarsi sull’eticità dei prodotti acquistati.

Per tutti: prendersi cura della natura che ci circonda, piantare dove possibile un albero in modo che possa aiutare le generazioni che verranno, ed insegnare questa cura a chi verrà dopo di noi, come nel racconto di Jean Giono “L’uomo che piantava gli alberi”.

Chi sta bruciando l’Amazzonia?

Emerge una risposta poco scontata dall’analisi di The Guardian sul tema della deforestazione dell’Amazzonia. Possiamo partre da queste considerazioni e farci qualche domanda in merito:

  1. Nel 2019 siamo a 79.000 “punti fuoco” in tutto il Brasile, cioè quasi il doppio rispetto all’anno scorso
  2. Il 99% di questi incendi ha origine umana volontaria, e vengono alimentati soprattutto per convertire terreni in colture di soya a fini di alimentazione animale, e in pascoli estensivi.
  3. L’anidride carbonica è la causa principale dell’effetto serra, e quando una foresta brucia “libera” nell’atmosfera grandi quantità di carbonio. Secondo il servizio europeo Copernicus, gli incendi di quest’anno in Amazzonia hanno già prodotto 230 milioni di tonnellate di CO2, ed aumentare la CO2 immessa nell’atmosfera significa aggravare il riscaldamento climatico, che rende probabili altri incendi, e così via, in un circolo vizioso.
  4. Se incendi e deforestazione arriveranno a riguardare il 25%-40% della foresta (per ora siamo intorno al 15%), l’ecosistema non sarà più in grado di regolare il proprio clima e la foresta Amazzonica potrebbe trasformarsi in una savana come era già 55 milioni di anni fa.
  5. La carne è uno dei principali prodotti di esportazione del Brasile, e l’Italia ne è uno dei principali importatori (30 000 tonnellate/anno – soprattutto per carni lavorate di bassa qualità – aumentate col recente accordo UE-Mercosur a 100.000 t/anno).
  6. Gli animali non sono allevati su terreni sottratti alle foreste primarie, tuttavia spesso sono alimentati con la soia proveniente dal sudamerica, responsabile di deforestazione.

A questo punto vi lasciamo con tre domande per continuare questa analisi, e con un breve video sugli Indios che vivono a contatto con questa tragedia da anni:

  • Quanto lo stile alimentare occidentale è responsabile della deforestazione in Amazzonia?
  • Quanto viene destinato alla cooperazione ambientale da parte dell’Europa e dell’Italia in particolare?
  • Quanto viene invece destinato a sostenere i consumi domestici di prodotti responsabili di deforestazione? 

Il verde rende felici

https://www.uvm.edu/uvmnews/news/city-parks-lift-mood-much-christmas-twitter-study-shows

Sembra incredibile che si debbano fare ricerche scientifiche per dimostrarlo, visto che ognuno di noi può farne esperienza personalmente, eppure è così, forse qualcuno nutriva dei dubbi. Fortunatamente sono stati fugati.

Sopra l’articolo in originale, sotto il riassunto in italiano da Repubblica.

https://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2019/08/21/news/il_verde_ci_rende_felici_si_vede_anche_dai_tweet-234047290/

Verso il cambiamento

woman walking along dessert under blue sky during daytime

“Un cambiamento negli stili di vita potrebbe arrivare ad esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. Accade anche quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione. Quando le abitudini sociali intaccano i profili delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. Acquistare è sempre un atto morale oltre che economico. Per questo, oggi, il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi”.

Queste sono parole di Mario Bergoglio, e spingono ognuno di noi a riflettere su quanto, fare la spesa o compiere altre azioni, come, tra le tante, per esempio, scegliere il proprio gestore telefonico o dell’energia elettrica, siano atti di estrema responsabilità perché hanno conseguenze di tipo economico e quindi politico e perciò sociale. Noi consumatori invece, troppo spesso, siamo spinti solo dal prezzo di ciò che compriamo, nell’immediato. Ma c’è un altro prezzo da valutare, quello a lungo termine.

Principali minacce alla biodiversità

Le principali minacce alla biodiversità sono distinguibili tra primarie e secondarie. Tra le prime possiamo annoverare la distruzione dell’habitat ad opera di progetti come strade, autostrade, dighe, attività minerarie, urbanizzazione in aree che sarebbero abbondantemente caratterizzate dalla varietà di piante e animali.

Un’altra causa importante è un pensiero dominante che crede che sostituire la diversità con l’omogeneità nella silvicultura, nella pesca, nell’allevamento o nell’agricultura sia economicamente più proficuo. C’è un pensiero che crede che la diversità vada a scapito della produttività e che invece, monocoltura e uniformità siano sempre la strada migliore da seguire per profitto.

La diversità è invece la base della stabilità ecologica e sociale. (Cfr. Vandana Shiva, Monocolture della mente, Bollati e Boringhieri, Torino, 1995).

Non è difficile osservare come la natura faccia crescere vicine piante diverse e coabitare svariati animali nello stesso habitat poiché si crea un vantaggioso equilibrio.

Il nostro attuale modo di coltivare la terra, invece, o, ancora peggio, di allevare gli animali si basa sull’uniformità: campi e campi di grano…migliaia di polli assiepati nello stesso capannone.

Questo modo di fare, secondo l’autrice citata, impoverisce di risorse il terreno e costringe a utilizzare più prodotti chimici. Come ammassare migliaia di animali della stessa specie in uno stesso luogo, crea con facilità il propagarsi di malattie tra gli stessi e rende necessario ricorrere a antibiotici o altre sostanze, (oltre a essere sbagliato da un punto di vista del rispetto per la loro vita che così si impoverisce e diventa solo funzionale al nutrimento umano).

Si rende necessario allora, scegliere di alimentarsi con prodotti della terra che provengano da una agricoltura che rispetta le piante e si avvicina quanto più possibile al modus operandi di Madre Natura.

Monocolture della mente

La coltivazione della terra riflette il nostro modo di pensare e di concepire le relazioni interpersonali?

Secondo Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, attivista, la risposta è senza dubbio affermativa ed è questo pensiero che ha sviluppato, alcuni anni fa, in un volume chiaro e conciso, Monocolture della mente, edito da Bollati e Boringhieri nel 1995.

“La diversità è il carattere distintivo della natura e il fondamento della stabilità ecologica. Diversi ecosistemi danno luogo a forme di vita e culture diverse. La coevoluzione delle culture, delle forme di vita e degli habitat mantiene intatta la diversità biologica del pianeta. Diversità culturale e diversità biologica si tengono“. pg.64.

Non ci può essere un solo modo di coltivare la terra, perché ogni habitat ha specificità diverse. Tuttavia, il paradigma monoculturale, diffusosi ovunque e teso a eliminare le diversità nelle coltivazioni, è frutto di un pensiero che globalizza, impoverendo la ricchezza delle specificità, sia biologiche che culturali.

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