La maggior parte delle professioni richiede al lavoratore di interfacciarsi al computer. Talvolta al computer e allo smartphone contemporaneamente imponendo una reperibilità su più app dove continuamente vengono richieste risposte, decisioni, azioni in tempi rapidi.

Chi riveste ruoli manageriali in aree altamente tecnologiche è maggiormente a rischio di technostress ma a livelli diversi lo siamo un po’ tutti.

Technostress è un termine non recente utilizzato per la prima volta nel 1984 dallo psicologo americano Craig Broad, nel suo criticatissimo libro, Technostress: the human cost of computer revolution.

Anche l’INAIL con un documento del 2017 si è occupata del problema : ICT E BENESSERE DEI LAVORATORI, di seguito, un breve passo del documento:

L’uso delle ICT può generare benefici di business, ma può anche causare reazioni negative negli individui, pertanto devono essere analizzate e gestite. Tra le conseguenze negative emerge il technostress, definito per la prima volta da Brod come una malattia moderna causata dall’incapacità di far fronte o trattare le informazioni e le nuove tecnologie di comunicazione
in modo sano. Salanova, contestualizzandolo in ambito lavorativo, lo ha definito come uno stato psicologico negativo associato all’uso delle ICT e ha evidenziato che tale esperienza può essere correlata a sentimenti di ansia, affaticamento mentale, scetticismo e inefficienza
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L’uomo è un animale sociale e l’interfacciarsi a lungo con supporti digitali non è naturale ed è fonte di stress sia sul piano fisico che psico-emotivo.

Ancora poco indagate le conseguenze dell’utilizzo di device sugli occhi, sulla psiche e sul piano relazionale anche alla luce del funzionamento dei cosiddetti “neuroni specchio”.

Massimo Servadio spiega cosa si intende per technostress.

Ulteriore approfondimento di Elisa Albertini e Carlo Galimberti in questo intervento.

Nel definire il technostress sono state prese in considerazione solo le dimensioni più macroscopiche del fenomeno ma le conseguenze negative sulla psiche di chi per molte ore si relaziona con pc o smartphone si situano su più livelli e hanno a che vedere con le variabilità individuali così da essere, spesso, poco individuabili. Di certo ad accomunare tutti i casi di persone stressate dalla tecnologia si riportano ansia, irritabilità, diminuzione della creatività e del pensiero divergente, dolori vari, insonnia, apatia, scarso investimento emozioanale, fino ad arrivare alla depressione.

La rivoluzione digitale che stiamo attraversando si delinea in modo sempre più complesso ed evidente cambiando profondamente i modi di relazionarsi con il prossimo e con se stessi e il proprio tempo libero. Occhi fissi su un device invece che occhi negli occhi di un altro essere umano e questo non solo nel mondo del lavoro.

A mediare le relazioni lavorative o personali spesso si trova la tecnologia con i propri codici e linguaggi rigidi e meccanici, stereotipati.

Poco lo spazio lasciato alla creatività e alla differenza: la mano compie movimenti sincopati e ripetitivi sulla tastiera, lo sguardo è come ipnotizzato dall’impercettibile sfarfallio di pixel che si accendono e spengono restando fisso, la nuca rigida, il collo è “sull’attenti”.

Mentre auspichiamo cambiamenti sempre più sostenibili nel mondo del lavoro, la natura ci viene in aiuto: è dimostrato che chi si sente colpito dal technostress può trarre giovamento dal contatto con la natura, in particolare dallo stare nel bosco, o in altre parole, come spiegano i giapponesi, dal praticare shinrin-yoku.

Entrare nel bosco e permanervi per un certo tempo riequilibra i nostri sensi e affina la nostra percezione interiore riportandoci in uno stato di mindfulness.